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LA VISITA NEL CARCERE DELLA MATTANZA

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Il presidente del Consiglio e la Guardasigilli sono andati fisicamente nel carcere delle violenze sui detenuti: quello di Santa Maria Capua Vetere. La cronaca del Corriere.

«Oggi non siamo qui a celebrare trionfi o successi, ma piuttosto ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte». Mario Draghi parla al microfono nel grande spazio aperto che avvolge la casa circondariale «Francesco Uccella» di Santa Maria Capua Vetere. Insieme con la ministra della Giustizia Cartabia ha appena visitato i reparti dell’alta sicurezza femminile e il Nilo, quello dove il 6 aprile 2020 gli agenti penitenziari sottoposero i detenuti a pestaggi e umiliazioni. Lo hanno accolto con applausi e cori che scandivano il suo nome. E gli hanno chiesto l’indulto. Ma lui non ha fatto promesse. Né ne fa nel breve discorso ufficiale che tiene davanti a una piccola platea composta anche da detenuti, ma soprattutto da agenti e operatori penitenziari, con i quali pure si è già incontrato all’interno dell’istituto. Il presidente del Consiglio lascia alla Guardasigilli il compito di illustrare nel dettaglio ciò che il governo intende fare in tema di carceri, limitandosi a dire che ne «sosterrò con convinzione» le proposte. Preferisce piuttosto rimanere sulla questione dei pestaggi, perché «il governo non ha intenzione di dimenticare», e «non può esserci giustizia dove c’è abuso», né «rieducazione dove c’è sopruso». Draghi non nasconde, anzi lo dice proprio, che la vergogna di quindici mesi fa va inquadrata non solo nel comportamento criminale di un gruppo di poliziotti, ma anche nelle condizioni del sistema carcerario italiano: «Le indagini stabiliranno le responsabilità individuali. Ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato». Il suo, però, non è un atto d’accusa verso la polizia penitenziaria, tutt’ altro: «In un contesto così difficile, lavorano ogni giorno, con spirito di sacrificio e dedizione, tanti servitori dello Stato, in primis la polizia penitenziaria, che in grande maggioranza rispetta i detenuti, rispetta la propria divisa, rispetta le istituzioni. A voi, e ai vostri colleghi in tutta Italia, va il più sentito ringraziamento del governo e il mio personale». Degli interventi futuri parla invece la ministra Cartabia, ma partendo sempre dai pestaggi: «I gravissimi fatti accaduti richiedono una presa in carico collettiva dei problemi dei nostri istituti penitenziari». Una presa in carico che passa attraverso «una strategia che operi su più livelli: strutture materiali, interventi normativi, personale, formazione». I detenuti sperano soprattutto negli interventi normativi, ma su quelli la Guardasigilli non entra nel dettaglio. Annuncia invece che con i fondi complementari al Pnrr, nelle carceri italiane saranno costruiti otto nuovi padiglioni. Uno anche a Santa Maria».

Per Avvenire Vincenzo R. Spagnolo ricorda l’articolo 27 della nostra Costituzione. La speranza è che Cartabia riparta da lì: da quelle parole rimaste troppo tempo solo sulla carta.

«Chi accompagnava ieri il presidente del Consiglio Mario Draghi nella visita nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere lo ha sentito ripetere a più di un recluso una frase accorata: «Non siete in un mondo a parte, no…». E il fatto stesso che lui abbia scelto di entrare, insieme alla ministra di Giustizia Marta Cartabia, nelle celle del carcere dell’«orribile mattanza» del 6 aprile 2020, testimonia la volontà di non nascondere sotto il tappeto dell’onerosa attività di governo la drammatica questione carceraria. ‘Emergenza’ annosa, perché segnata da problemi permanenti: un sovraffollamento strutturale (benché in calo, da 60mila a 53mila reclusi nell’ultimo anno, a fronte di 50mila posti tabellari); troppe morti (già 73 quest’ anno, con 26 suicidi; 152 l’anno scorso, con 62 gesti estremi); denunce di violenze e abusi in diversi istituti italiani e altro ancora. Una zavorra di dolore e tensioni che incide sulla vita di tutti, detenuti e agenti, rallentando molti percorsi di ravvedimento. Ieri, riemergendo dalle celle del «Francesco Uccella», il premier e la Guardasigilli hanno annunciato l’intenzione di «voltare pagina». E, a onor del vero, qualche passo concreto, la ministra lo sta già muovendo. In parte valutando risposte ‘tradizionali’, come nuove assunzioni di personale (non solo agenti ma anche educatori) e investimenti sulle strutture carcerarie (attualmente 190, da nord a sud). Ma oltre a questo, ed è la ‘rivoluzionaria’ novità, in via Arenula e a Palazzo Chigi si sta immaginando un cambio di paradigma, che inveri finalmente nella realtà penitenziaria lo straordinario dettato dell’articolo 27 della Carta. Nelle proposte di riforma penale, licenziate dal Cdm nei giorni scorsi e da sottoporre al Parlamento per emendare il ddl Bonafede, trovano infatti posto ipotesi di percorsi di «giustizia riparativa» per vittime e autori di reati, l’ampliamento del ricorso a sanzioni alternative o pecuniarie e la valorizzazione della «messa alla prova». Proposte equilibrate e concrete, che attingono alle valutazioni del rapporto della commissione ministeriale guidata da Giorgio Lattanzi, già presidente della Consulta, proprio come Cartabia. Due giuristi raffinati e umanissimi, due ‘custodi’ della Carta, che paiono determinati stavolta – insieme al premier – a dare finalmente sostanza al dettato costituzionale sul senso di umanità e sul valore rieducativo della pena».

Liana Milella per Repubblica spiega come Cartabia voglia imprimere una svolta garantista: la pena non può essere solo il carcere.

«Il carcere non può essere l’unica risposta al reato». Lo ha detto tante volte Marta Cartabia. Sin dal suo primo discorso davanti alla davanti alla commissione Giustizia della Camera. Era il 15 marzo. I fatti di Santa Maria erano di là da essere messi in piazza. Eppure la ministra disse subito che il carcere deve avere «un volto umano». Adesso le sue leggi tradurranno questi principi in fatti. Da un lato, con un’ampia casistica di pene alternative alla detenzione. E questo la Guardasigilli lo ha già previsto con altrettanti emendamenti nella riforma penale appena approdata a Montecitorio. Già, proprio quella contestata ancora ieri da M5S. E che invece riprende la legge dell’ex Guardasigilli del Pd Andrea Orlando sull’esecuzione penale che fu proprio il suo successore Alfonso Bonafede a ridimensionare. Dall’altro lato Cartabia vuole ritentare proprio l’avventura di Orlando di rimettere mano all’ordinamento penitenziario, la legge Gozzini del 1975, che via via, negli anni, ha progressivamente perso o ha visto attenuarsi il coté umano e progressista per lasciare il posto a un carcere dove si sconta solo quel tot di pena deciso dal giudice, ma non si guarda a una nuova vita possibile dopo le sbarre. Se Cartabia farà tutto questo dovrà prevedere la contrapposizione dura di chi sposa la teoria del “buttiamo la chiave”. Ma è propio scorrendo già la sua legge penale che si può vedere come le affermazioni fatte a Santa Maria sono state tradotte in norme che andranno solo applicate. Vediamole. Il carcere “riservato solo ai reati più gravi”. Per tutti gli altri “pene alternative”. A partire da quelle che andranno a sostituire le pene detentive brevi. L’asticella si ferma su quelle fino a 4 anni. Il giudice sceglie subito una soluzione differente rispetto al carcere. Può essere la detenzione domiciliare, oppure la semilibertà nei casi in cui il percorso dell’imputato presenta delle ambiguità negative di comportamento. In questo caso il condannato potrà uscire dal carcere, anche per un lavoro esterno, ma poi dovrà farvi rientro. Scendiamo di un anno nella pena. La condanna in questo caso è fino a 3 anni. Il giudice potrà prevedere di condannare il suo imputato a un lavoro di pubblica utilità, un lavoro definito e considerato socialmente utile, che non prevederà una retribuzione. Si allarga, rispetto a oggi, la platea dei reati che possono rientrare in questa categoria. Non solo quelli di competenza del giudice di pace e per la guida in stato di ebbrezza. E tra gli emendamenti di Cartabia ecco un altro passo in avanti, oggi la pena pecuniaria vale solo per i reati per cui è prevista una pena fino a sei mesi, ma da domani i mesi diventeranno dodici. Ma con la riforma Cartabia c’è anche una radicale modifica rispetto alla procedura. Perché se oggi queste misure alternative si possono chiedere ai giudici di sorveglianza, con la futura riforma ci si potrà rivolgere subito al giudice al momento della sentenza di condanna oppure dopo il patteggiamento. E quindi ecco che se patteggi una pena fino a 4 anni questo sarà un ulteriore incentivo. Nello spirito, tante volte ribadito da Cartabia, e cioè che «l’unica pena per chi commette un reato non può essere solo il carcere», nella riforma penale trovano spazio la sospensione del processo con la messa alla prova. Se oggi questo è possibile per i reati fino a 4 anni, domani vi rientreranno quelli fino a 6 anni. E per prevenire le critiche, la riforma già prevede che non ci potrà essere alcun automatismo, nessuna regola generale, ma la valutazione caso per caso per i reati che si prestano a percorsi di quella che viene chiamata giustizia riparativa. Quando chi ha commesso il delitto non deve solo scontare la pena, ma anche riparare il danno causato alla vittima. In quelli che sono stati battezzati “centri di mediazione” sarà possibile l’incontro tra l’autore del reato e la sua vittima. Cartabia si tuffa nell’avventura di cambiare l’ordinamento penitenziario. Orlando l’aveva fatto con gli Stati generali dell’esecuzione penale lavorandoci dal 2014 in avanti con il penalista Glauco Giostra. A marzo 2018 la riforma non ottenne l’ultimo via libera di palazzo Chigi. C’era chi temeva una ripercussione negativa sul voto. Ad agosto il governo gialloverde la ribattezzò una “salva ladri” e la bloccò»

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