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TRONTI, UN FILOSOFO IN MONASTERO

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A proposito di che cosa debba essere la sinistra e su che cosa mobilitare i suoi elettori, Concetto Vecchio intervista per Repubblica Mario Tronti per i suoi 90 anni. È l’occasione di un bilancio non banale.

«Mario Tronti, dove si trova adesso?«Sono in ritiro spirituale, nel monastero di Poppi, nel Casentino, retto dalle monache camaldolesi. Mercoledì compio 90 anni e questo passaggio bisogna farlo bene, sentirlo interiormente». Che si fa in un eremo? «La giornata è scandita dalle liturgie. Alle 7,30 ci sono le lodi nella cappella, alle 12,30 l’ora media, alle 18,30 i vespri. Per il resto scrivo, lavoro. Sto leggendo La morte di Virgilio di Hermann Broch». Sente il bisogno di solitudine? «L’eremo e la metropoli sono due polarità molto conflittuali, la solitudine da una parte, la massa dall’altra: bisogna saperli abitare tutti e due». E’ credente? «Né credente, né non credente. Nemmeno praticante. Ma da uomo di battaglia, di conflitto, ho bisogno ogni tanto di contemplazione. La mia massima: essere in pace con sé stessi e in guerra col mondo». Non è una contraddizione per un comunista finire in un eremo? «No, anche il comunismo è una fede che ha una matrice comune con il cristianesimo. La dimensione del credere è indispensabile. E’ stato un errore tragico dei Paesi socialisti reprimerla». Novant’anni pesano? «Sono un traguardo. Come disse Jünger a Schmitt: “La vecchiaia è finita, adesso comincia l’età dei patriarchi». In che famiglia è cresciuto? «Mamma e papà lavoravano ai mercati generali di Roma. Li sentivo uscire di casa alle quattro del mattino, col buio, in certe albe gelide, mentre io me ne stavo nel letto caldo. La vita che vedevo fare ai miei mi procurò una prima rivolta». Dove abitavate? «All’Ostiense, tra la Garbatella e Testaccio, una periferia urbana molto civile, solidale. Papà era un mangiapreti. Da vecchio comunista non volle mai essere proprietario di una casa. Mamma al contrario cattolicissima: ma poi era lei a comprargli L’Unità in edicola. Questo contrasto tra loro io poi l’ho ereditato». Non era scontato che lei diventasse un filosofo. «A casa mia non c’erano libri. In quinta elementare il maestro prese da parte mia madre e le disse: “Lo faccia studiare”. C’era il fascismo, e mio padre, pur di non mandarmi in una scuola pubblica, mi fece fare le medie al Pio IX sull’Aventino, dai preti». Che ricordi ha della guerra? «Traumatici. Il nostro palazzo venne colpito da un bombardamento, nel luglio del 1943. Per fortuna eravamo sfollati in Umbria. Per anni fui perseguitato dall’urlo delle sirene, dal rombo degli aeroplani». Perché scelse di studiare filosofia? «Fu il mio professore d’italiano a consigliarmelo. Lo annunciai ai miei. Mi guardarono interrogativi: “Tu sai quello che devi fare”, mi disse mia madre. Mi laureai con una tesi sul giovane Marx, relatore Ugo Spirito». Com’era militare nel Pci nel Dopoguerra? «Ero segretario della sezione universitaria, quando ci furono i fatti di Ungheria. Facemmo una lettera di solidarietà con gli insorti, firmata da centouno intellettuali, tra cui Natalino Sapegno, Alberto Asor Rosa, Renzo De Felice, Lucio Colletti. La portammo all’Unità, chiedendo che fosse pubblicata. Ci ricevette Maurizio Ferrara, il padre di Giuliano: “Cari compagni, voi avete sbagliato partito”. La lettera non uscì». Ha vissuto l’epopea della ricostruzione. «Sì, ma la mia generazione, nata negli anni Trenta, si è affacciata alla vita adulta quando tutto era stato fatto: la Resistenza, la nascita della Repubblica, le grandi ideologie si erano formate. Non rimaneva più granché da fare. Mi è sempre rimasta una nostalgia acuta per una storia che non ho vissuto». Avrebbe voluto nascere prima? «Sì, viviamo in un tempo di passioni spente, dentro una quotidianità deludente, che si ripete, con un ceto politico di basso livello, di nessun pensiero. E quindi mi prende malinconia, del resto ho appeso alla parete del mio studio la Melencolia di Albrecht Dürer. Forse avrei dovuto fare più politica e meno pensiero. E’ la mia spina nella carne». Come si definirebbe politicamente? «Un rivoluzionario conservatore. Una formula che usò anche Enrico Berlinguer». E che vuol dire? «La rivoluzione non è contro la tradizione, è essa stessa tradizione. Ho sempre combattuto lo storicismo, l’idea che la storia deve andare sempre avanti. Non è così. Dagli anni Ottanta la storia è andata indietro. Abbiamo vissuto un’età di restaurazione. Mi è cara la frase di Togliatti, secondo cui “noi veniamo da lontano e andiamo molto lontano». Oggi non è più così? «Oggi i progressisti vengono da vicino e vanno molto vicino». Da dove dovrebbe ripartire la sinistra? «Dal lavoro. Il mondo del lavoro c’è ancora e chiede soltanto di essere organizzato e orientato. Ma per farlo serve una grande soggettività politica che non scorgo. E infatti gli operai votano per la Lega, e i sottoproletari per la destra. E alla sinistra sono rimasti i voti dei benpensanti, dei benestanti». La sinistra pensa troppo ai diritti e poco alla questione sociale? «Si può dire anche così. Vorrei una sinistra che partisse dai diritti sociali e arrivasse ai diritti individuali, viceversa ci non arriverai mai. La sinistra ha smesso di parlare alla sua parte di società, agli esclusi». Lei vive in un caseggiato popolare al Laurentino 38. «E’ un palazzo enorme, di 54 appartamenti. E mi ci trovo benissimo. Mentre mi trovo a disagio in una sala di concerti. Amo profondamente la musica, scrivo sempre con la musica classica in sottofondo, ma quando vado a teatro sento che siamo dei privilegiati». Renato Zero è suo nipote? «E’ il figlio di mia cugina. Sua nonna, Renata, era la sorella di mio padre. Gli piacciono gli gnocchi col sugo di castrato che cucina mia moglie. E’ un commensale affascinante e ha una vena anarchica che a me manca. Per lui io sono lo zio comunista». Lei è passato alla storia per un libro che nel Sessantotto fece epoca. «Operai e capitale. Uscì per Einaudi nel 1966 ed ebbe un grande successo. Norberto Bobbio lo bocciò, salvo pentirsene. Fornì la base ideologica a due movimenti ai quali io non ho mai appartenuto, Potere operaio e Lotta continua». E perché? «Perché io non sono mai entrato in un gruppo minoritario. Si sta sempre con la forza maggiore del movimento operaio, e quella forza era il Pci. Toni Negri, con cui fondammo la rivista Classe operaia, insieme a Massimo Cacciari e Alberto Asor Rosa, mi rinfacciò di avere abbandonato la causa. Non è vero. Sono sempre stato me stesso, fedele agli ideali di allora». Roma è peggiorata? «Sì, ma è una città che non potrei mai lasciare. Mi piace la plebe romana, parlo volentieri il romanesco. E ho sempre i sonetti del Belli sul comodino. Adoro i tramonti nelle sere d’estate, i vicoli di Trastevere, le piazze di Testaccio, le villette della Garbatella». E’ felice di com’è andata la sua vita privata? «Ho una buona famiglia. Due figli e due nipoti. Ho condotto una vita molto regolare. Con mia moglie ci siamo sposati nel 1968». Cosa ha capito della vita? «Non è una passeggiata al chiaro di luna. (Ride). E’ un percorso a ostacoli, che bisogna superare con molta forza, molta decisione. Sono felice di non avere sofferto né di depressioni né di nevrosi. Ma ho sempre avuto una visione tragica della storia umana». Per vivere bene bisogna avere il senso del tragico? «Sì, ne sono convinto, ma senza farsene travolgere. Ci sono contraddizioni nelle nostre vite che non si possono superare. Tra tesi e antitesi non c’ è sintesi. E’ così, e bisogna accettarlo». La morte la spaventa? «No, l’attendo con serenità. Ho vissuto abbastanza. Spero tuttavia che sia un passaggio facile. Per dirla con Montaigne confido che la fine mi colga mentre sto coltivando le mie rape nell’orto».

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